Nel mondo scientifico e accademico è da anni riconosciuta l’infondatezza e la dannosità delle cosiddette terapie riparative, eppure nel dibattito pubblico questi approcci trovano ancora spazio e sostegno: ecco perché nel 2019 continua ad essere importante parlarne.
Che cosa sono
Le terapie riparative sono approcci che considerano l’omosessualità come una malattia o una devianza della sessualità, e sostengono di poter curare la persona che attua comportamenti omosessuali fino a farla diventare “ex-gay”. Queste teorie sono sostenute soprattutto da gruppi politico-religiosi piuttosto estremisti (vedi Lingiardi, Citizen Gay: Famiglie, diritti negati, salute mentale, 2007) e partono da presupposti ideologici che riducono l’omosessualità a comportamenti peccaminosi e immorali, conseguenti a un presunto fallimento nel processo di identificazione di genere.
Per esempio, un ragazzo che prova desideri omosessuali e chiede una consulenza a chi fa terapie riparative (o viene portato lì dai genitori) probabilmente si sentirà dire che ha un rapporto conflittuale col padre, che è troppo effeminato e non è riuscito a incarnare appieno il suo ruolo maschile, che quello che lui scambia per desiderio sessuale sarebbe in realtà un senso di ammirazione per persone del suo stesso sesso pienamente identificate nel genere maschile. L’argomento “problemi con il papà” sarà facilmente proposto anche a una ragazza che si dice attratta da ragazze, stavolta con la spiegazione che il risentimento per il padre l’avrebbe portata a sviluppare un odio verso gli uomini.
In entrambi i casi, il messaggio comunicato è “l’omosessualità è sbagliata ma si può curare”, con la promessa più o meno esplicita di neutralizzare i desideri omosessuali o quantomeno di renderli controllabili. È dopo questa riconfigurazione dei vissuti personali che hanno inizio le pratiche per la riparazione: incontri “terapeutici” individuali e di gruppo, counseling pastorale, direttive comportamentali di rinforzo/evitamento, iniziazioni alla mascolinità o alla femminilità basate sui ruoli di genere stereotipati (es. giocare a calcio per fare “le cose che fanno i maschi”), preghiera e talvolta esorcismi.
Le terapie riparative sono prive di fondamento scientifico e per questo motivo sono vietate dalle principali istituzioni della Salute Mentale, come l’American Psychiatric Association (APA), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP). Per comprendere la pericolosità delle teorie riparative è necessario un breve riferimento alla storia della depatologizzazione dell’omosessualità nel campo della Salute Mentale.
La depatologizzazione dell’omosessualità nella comunità scientifica
La comunità scientifica ha superato ormai da decenni il capitolo buio in cui considerava l’omosessualità come una malattia. Già negli anni ‘50 una ricerca della psicologa Evelyn Hooker aveva dimostrato che l’omosessualità non presenta sintomi specifici che permettano ai clinici di riconoscere l’orientamento sessuale di una persona osservando i punteggi dei test di personalità. In altre parole, la Hooker ha evidenziato che il funzionamento sano o patologico non ha nulla a che fare con l’orientamento sessuale. Questa ricerca ha fatto da apripista per l’utilizzo del metodo scientifico anche sul tema dell’omosessualità, permettendo così di superare il pregiudizio verso la non-eterosessualità, che per anni ha portato diversi autori a sviluppare teorie patologizzanti senza verificare l’esistenza di fondamenti scientifici.
La depatologizzazione dell’omosessualità e la sua rimozione dai manuali dei disturbi mentali sono avvenute ufficialmente nel 1973 per l’American Psychiatric Association (APA) e nel 1990 per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Attualmente le istituzioni della Salute Mentale considerano l’omosessualità come una “variante naturale normale e positiva della sessualità umana” (APA) e una “variante naturale del comportamento umano” (OMS). Le teorie sull’origine dell’omosessualità come esito di dinamiche familiari patologiche o di uno sviluppo psicologico incompleto sono considerate ormai obsolete. Ad oggi la scienza ci dice che l’orientamento omosessuale è uno di quelli possibili; non è una malattia, non è una scelta, non è modificabile con alcun trattamento. Si è inoltre perso qualsiasi interesse a ricercare l’origine dell’omosessualità, così come non si ricerca l’origine dell’eterosessualità.
La comunità scientifica ha un grande debito nei confronti delle persone omosessuali danneggiate a livello fisico e psicologico da qualsiasi approccio riparativo (per gli amanti del cinema un riferimento può essere il recente film “Boy Erased”). Per questo motivo, le istituzioni della Salute Mentale hanno preso l’impegno di contrastare lo stigma e i pregiudizi generati dall’ignoranza o da false credenze sull’orientamento sessuale, attraverso la divulgazione di informazioni scientificamente fondate, la continua ricerca e la deontologia professionale.
Da chi sono richieste e chi le propone
Le terapie riparative hanno iniziato a diffondersi negli anni ‘80, dopo che l’APA aveva ormai cancellato l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali e promuoveva gli approcci affermativi per favorire l’accettazione positiva dell’identità gay, lesbica e bisessuale. In tale contesto, le terapie riparative hanno potuto intercettare le persone che vivevano un profondo conflitto per l’incompatibilità percepita tra il proprio sistema di valori culturale-religioso e la prospettiva di un’identità gay o lesbica. Tutt’oggi le terapie riparative sono tendenzialmente richieste da chi fatica a trovare una coerenza tra diverse dimensioni della propria identità e, per la sofferenza generata da tale conflitto, chiede di eliminare un aspetto di sé vissuto come inaccettabile e perturbante.
Di fronte a una richiesta di conversione dell’orientamento sessuale, un/a terapeuta competente e rispettoso/a della deontologia professionale farà un’analisi della domanda aiutando la persona a riformulare la sua richiesta. È infatti probabile che questa sia legata al bisogno di mitigare i profondi conflitti sul proprio orientamento sessuale, all’esigenza di ridurre lo stigma interiorizzato e alla necessità di trovare una narrazione identitaria che possa tenere insieme la dimensione della sessualità con le credenze religiose, le tradizioni culturali ecc. Diversamente, chi pratica terapie riparative colluderà con la domanda della persona senza analizzarla in modo critico e clinicamente corretto, in quanto ideologicamente sintonizzato/a con la prospettiva patologizzante e disconfermante del/della paziente.
In Italia i terapeuti che praticano apertamente le terapie riparative sono pochi, generalmente legati a gruppi religiosi spiccatamente dogmatici. Se si tratta di professionisti iscritti all’Ordine degli Psicologi, mi preme ricordare che la pratica riparativa vìola il Codice Deontologico ed è per questo segnalabile dai/dalle pazienti alle commissioni etiche dei diversi Ordini Regionali. Le terapie riparative vengono proposte anche da altre figure, come sacerdoti, pastori, consulenti. A tale proposito, rimando i lettori e le lettrici al recente approfondimento de L’Espresso (16 giugno 2019) “Così ci hanno devastato l’anima per ‘guarirci’ dall’omosessualità”, che riporta tre testimonianze di adolescenti che hanno incontrato terapisti riparatori, di cui due psicologi e un dentista collaboratore della curia. Qualunque sia la loro professione, coloro che propongono le terapie riparative non hanno un’etica o deontologia professionale né fondamenti scientifici che li sostengano, bensì hanno come riferimento ideologie omofobiche ed eterosessiste, che vedono l’eterosessualità come unica identità sessuale possibile e, di conseguenza, l’omosessualità come mero comportamento da neutralizzare, correggere e stigmatizzare.
Funzionano? No, anzi sono dannose!
Nel 1994 l’American Psychiatric Association (APA) ha dichiarato che non esistono valide pubblicazioni scientifiche che dimostrino l’efficacia delle terapie riparative nel modificare l’orientamento sessuale. Gli unici studi a favore provengono da organizzazioni religiose che esprimono forti pregiudizi ideologici sull’omosessualità e presentano errori metodologici nella descrizione di definizioni, campioni, trattamenti, risultati e monitoraggio nel tempo, tali da rendere scientificamente inaffidabili e non valide le conclusioni proposte e da non permettere una replica delle applicazioni. Il massimo “risultato” auspicabile di queste terapie è la castità o una relazione eterosessuale di facciata, senza però modificare i desideri omosessuali che semplicemente restano repressi, con tutta la sofferenza per tale coartazione, il senso di colpa, di fallimento e l’inevitabile immagine negativa di sé.
Ciò che la ricerca evidenzia è invece il grave danno che le terapie riparative provocano: perdita di interesse sessuale, ansia, depressione e impulsi suicidari. Questi approcci si alleano con l’omofobia interiorizzata della persona, fanno leva sui sentimenti di vergogna e sul senso di colpa e colludono con la richiesta di rinforzare una scissione o un occultamento dell’omosessualità dal resto della personalità. Da un punto di vista psicologico questo è quanto di più lontano si possa pensare rispetto a un lavoro terapeutico finalizzato all’integrazione del Sé e al benessere personale.
La situazione italiana
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) e l’Associazione Italiana di Psicologia (AIP) si pongono esplicitamente contro la pratica di qualsiasi terapia riparativa. Non si tratta di una posizione ideologica ma, al contrario, di una corretta applicazione del Codice Deontologico: secondo gli articoli 3, 4 e 5, il professionista psicologo lavora per promuovere il benessere psicologico; si astiene dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità; si impegna all’aggiornamento continuo delle sue conoscenze scientifiche; applica metodologie delle quali è in grado di indicare fonti e riferimenti scientifici e non suscita aspettative infondate nelle attese del/la cliente.
Purtroppo la netta posizione istituzionale della Salute Mentale non basta a garantire il blocco delle terapie riparative, per questo é fondamentale divulgare una corretta informazione scientificamente fondata e ricordare alle persone “riparate” che possono esercitare il loro diritto di segnalare chi ha proposto loro tali pratiche.
I contesti più a rischio di terapie riparative restano i gruppi religiosi estremisti legati a terapeuti o consulenti conosciuti nel settore, assai lontani dalle realtà religiose più accoglienti e capaci di trovare una conciliazione armonica tra le identità sessuali e il proprio credo (esempi per la fede cattolica sono associazioni come “Il Guado”, o figure come don Ciotti e don Barbero). Mi preme dunque sottolineare l’importanza di scegliere con cautela il/la professionista a cui affidarsi, di chiedere riferimenti scientifici in caso di dubbi e, soprattutto, di diffidare da qualsiasi giudizio morale che imponga un’immagine sovra-ordinata a cui adattarsi anziché offrire ascolto e dare supporto ai vissuti personali.
Ph. Illustrazione di Adria Fruitos
Articolo pubblicato su 15121
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